VIDEO | Coronavirus, bambini untori o no? C’è confusione nel mondo della ricerca

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Sip: "Parte studio usa su 6.000 ragazzi per fare chiarezza su contagio covid" Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print


ROMA – Sul rapporto Covid-19 e mondo dell’infanzia c’è confusione, ma il dibattito sembra dividersi su due posizioni principali: i bambini sono effettivamente untori della malattia Covid-19; oppure, come riporta il recentissimo studio pubblicato su JAMA, oltre ad ammalarsi di meno, si infetterebbero anche di meno e sarebbero, infine, meno contagiosi. “Sicuramente i bambini, nell’ambito dei malati Covid-19, sono una percentuale molto piccola. I dati dell’Istituto superiore di Sanità aggiornati al 14 maggio ci dicono che si sono ammalati nella fascia 0-18 anni all’incirca 4.000 bambini, ovvero l’1,8% del totale dei contagiati. Inoltre, dai dati Istat risulta che, tra i bambini che si ammalano, meno del 5% ha necessitato di un ricovero ospedaliero. Dunque i più piccoli si ammalano poco e se si ammalano le forme sono più lievi”. A fare il punto è Rino Agostiniani, vicepresidente della Società italiana di pediatria (Sip), che pone però un’ulteriore domanda: “Si ammalano così pochi bambini perché realmente non contraggono la malattia o perché hanno una malattia senza sintomi, e quindi noi non li troviamo in quanto non andiamo a indagare? In questo secondo caso sarebbe valida quella identificazione dei bambini come coloro che possono trasmettere la malattia. Non abbiamo studi solidi che ci dimostrano l’una o l’altra di queste ipotesi”, conferma il vicepresidente della Sip.

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C’è confusione, quindi, tra gli studi scientifici: “Ad esempio è stata fatta una ricerca cinese in cui si identifica la possibilità di contagio nei bambini come sovrapponibile a quella degli adulti sotto i 50 anni, mentre altri studi europei – quali quello islandese, francese e italiano di Vo’ Euganeo – ci porterebbero a pensare che i bambini si ammalano meno rispetto agli adulti”. Il lavoro pubblicato due giorni fa su JAMA “va a ipotizzare una minore suscettibilità dei bambini all’infezione- ricorda Agostiniani- perché a livello della mucosa nasale (dato che si incrementa con l’età) c’è una minore rappresentazione dell’enzima di conversione dell’angiotensina di tipo 2, che facilita il passaggio del virus all’interno della cellula. I virus per entrare dentro di noi hanno bisogno di un mezzo- spiega il medico toscano- sembrerebbe che nei bambini questo strumento di trasporto sia meno rappresentato rispetto alle età successive”.

LO STUDIO AMERICANO

Per cercare di fare ancora più chiarezza tra queste differenti ipotesi scientifiche, “è partito uno studio prospettico negli Stati Uniti su 6.000 bambini. L’obiettivo è seguirli nel corso delle prossime settimane e mesi, per osservare la loro situazione epidemiologica. “Per quello che possiamo dire finora- continua il vicepresidente della Sip- la stragrande maggioranza dei più piccoli si è contagiata a livello familiare. Questo cosa vuol dire? Si sono contagiati dentro la famiglia perché non sono andati a scuola o perché la famiglia è l’unica situazione in cui sarebbero sottoposti a delle presenze più importanti di una carica virale ripetuta, che può aver facilitato l’infezione anche se loro sono meno predisposti?”. Un dato di sintesi, secondo Agostiniani, “non è ancora facile da ottenere, perché abbiamo cominciato a studiare questo virus da circa 3 mesi. Ci sono molti studi in divenire che cercano di comprendere più a fondo quali siano i meccanismi attraverso i quali può essere facilitato il contagio e la maggiore o minore gravità della malattia. Per avere chiarezza assoluta ci vorrà del tempo“, conclude.

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