Tra i tanti volumi che parlano di spettacolo del 2021, uno è dedicato a Stan Lee, autore cresciuto nel tempo quasi a nume tutelare di casa Marvel. Si tratta di una biografia che osa andare oltre il mito per affrontarne anche i lati meno luminosi. Di qui, l'idea di aggiornare un corposo articolo dell'archivio di GQ del 2017. 


Di cosa parliamo quando si tratta di Stan Lee

Nel maggio 2003, mentre in US usciva Hulk di Ang Lee, il compianto critico di fumetti Tom Spurgeon ha commesso un atto simbolico nel mondo dei cultori dei supereroi equivalente a un attentato al suo Dio.
I veri fan dei fumetti Marvel hanno reagito duramente contro una delle prime voci che abbia mai osato mettere in discussione l'eredità di Stan Lee, la cui immagine in ogni occasione, fino al punto celebrativo più alto raggiunto nel film Mallrats diretto da Kevin Smith nel 1995, è stata dipinta al pari di una sorta di Zeus in quadricromia, o come quella di un padre degli Dei (in realtà, titani dai super poteri) a cui la cultura pop non sarà mai abbastanza grata. 

Mentre questo status beatifico è, in una certa misura, del tutto giustificato, Spurgeon conosceva per esperienza diretta anche le sfumature meno comode di una delle personalità più rivoluzionarie apparse nell'industria dell’intrattenimento. La sinossi dell’autorevole saggio scritto da Tom Spurgeon insieme a Jordan Raphael, dal titolo: Stan Lee and the Rise and Fall of the American Comic Book è già di per se molto significativa: «Noto per la sua fama di scrittore dalla penna folgorante, grande editore, instancabile auto-promulgatore, accaparratore di meriti e ciarlatano, Stan Lee ha volato al di sopra delle sue umili origini per esplorare la fortunata galassia del boom dei fumetti degli anni '40 e diventare il testimone icona dell'attuale mania cinematografica per i supereroi».

Proprio sull’attuale infatuazione di massa verso gli eroi in maschera, Spurgeon ha scritto alcune riflessioni dal titolo Op-Ed on Incredible Hulk Movie, pubblicato sul sito The Comics Reporter. «Negli anni '60 Stan Lee non era un semplice autore di fumetti», ha affermato in un passaggio cruciale. «Era lui stesso un personaggio dei fumetti di quell’epoca. Lee ha usato la sua posizione editoriale per raffigurarsi come il geniale protagonista dell'esperienza Marvel. Comunicava direttamente al lettore dalle pagine della posta e attraverso le stesse fumetterie, è diventato una figura adorata da milioni di ragazzini chiusi nel loro mondo adolescenziale e considerati intellettualmente fragili che divoravano i capolavori pulp della Marvel (…) Esattamente come Walt Disney, Stan Lee fece in modo che il pubblico identificasse in lui il successo della compagnia. A differenza della Disney, la Marvel Comics doveva però ancora fare il passo finale nel mainstream dell'inconscio pop collettivo».

In altre parole: ciò che Spurgeon aveva lucidamente intravisto nell’articolo datato 2003, all'inizio del nostro secolo, è qualcosa che avrebbe preso forma cinque anni dopo, con l'uscita di Iron Man (Jon Favreau, 2008) e il consolidamento dei Marvel Studios come la nuova miniera d’oro nella Hollywood del decennio successivo. 
La profezia avrebbe chiuso il cerchio quando, nel settembre 2009, la Marvel Entertainment è diventata una filiale della Walt Disney Company. Niente di tutto ciò va visto come un’imprevedibile conseguenza di una fra le tante azioni commerciali che Stan Lee intraprese durante gli anni '70, ma era proprio l'obiettivo finale di ognuna di esse.

Dopo un tentativo fallito di rinascita artistica insieme ad Alain Resnais, un regista con il quale Lee aveva un legame speciale, di trasformare i suoi personaggi in materia prima ottimale, si trasferì negli anni ottanta a Los Angeles. In quel periodo si trasformò in qualcosa di più simile a un magnate di Hollywood rispetto alla furia creativa dei suoi giorni alla Marvel. 

Spurgeon nel 2003 spiegò bene in quel suo visionario articolo, la contaminazione subita dagli stessi fumetti Marvel a causa del nuovo atteggiamento del loro demiurgo. Una metamorfosi che si tradusse in una serie di proposte più o meno abilmente nascoste per il lancio di franchise multipiattaforma: adattamenti cinematografici, pupazzetti, magliette, serie TV, videogiochi e persino romanzi. E così arriviamo alla fine del XX secolo, quando la Marvel sigla alcuni accordi con le major per la produzione di blockbuster visti come unica ancora di salvezza e il resto dei grandi editori che cercano di firmare a loro volta contratti i vista di quello che, dopo i successi di X-Men (Bryan Singer, 2000) e Spider-Man (Sam Raimi, 2002), fu visto come il prossimo passo logico nell'evoluzione genetica dei supereroi nella cultura popolare.

Storie di vampiri

Al giorno d'oggi, il principale supporto di consumo delle storie di supereroi non è più la carta, ma il cinema, la televisione e il web. Lee stesso ha cercato di anticipare questa realtà fondando la Stan Lee Media, uno studio di creazione, produzione e marketing che ha preceduto il suo successivo POW! Entertainment

Da Stripperella a Lucky Man, il creatore del rivoluzionario Metodo Marvel ha passato gli ultimi quindici anni della vita a sfruttare la sua firma e il carisma su un sacco di progetti a base di supereroi collaborando con diversi partner audiovisivi. Molte di queste idee sono rimaste solo sulla carta ed è superfluo aggiungere che, nel caso vedessero finalmente la luce, nessuno di questi "Stan Lee Presents… " può essere paragonato al ricordo del lavoro svolto negli anni d’oro in Marvel. Uno scarto giustificato dal fatto che nessuno tra i componenti del suo staff degli ultimi anni: dirigenti, stagisti, investitori ossessionati dal profitto a breve termine e partner diversi come Pamela Anderson, Ringo Starr, i Backstreet Boys o Robert Evans, è mai stato all’altezza dei componenti di quella irripetibile squadra di scrittori e fumettisti il cui talento Stan ha vampirizzato senza vergogna negli anni d'oro della Marvel Comics.

Nel libro dal titolo: True Believer: The Rise and Fall of Stan Lee, una straordinaria biografia che Abraham Riesman ha appena pubblicato negli Stati Uniti, troviamo una sintesi ben documentata, brillante e obiettiva nel mettere in risalto le luci e le ombre di un creativo che è stato capace con il suo lavoro «di rimodellare la cultura pop globale… pagando per questo un prezzo molto alto a livello personale». 

Secondo Riesman, l'ultimo decennio di Lee è un periodo poco documentato eppure pieno di rivelazioni, tali da chiedersi se non possa esistere un interesse commerciale nel continuare a pubblicizzare l'idea dello Zeus della Marvel nelle vesti di un vecchio affabile e sempre ben abbronzato per nascondere alcuni suoi possibili peccati troppo ingombranti o pericolosi rispetto al giro di affari che si nutre del suo mito. 

La Stan Lee Media, per fare un esempio, fu un’operazione orchestrata principalmente da Peter Paul, un truffatore professionista che avvicinò Stan e sua moglie Joan con la scusa di avviare una società di produzione di serie web adatte all'allora neonato ambiente internet, ma i cui veri piani prevedevano uno schema piramidale di affari truffaldino. L'Interpol ha catturato Paul nel 2001 mentre era nascosto in Brasile. I Lee, che non sono mai stati formalmente accusati di nulla, hanno sostenuto di essere stati le prime vittime della truffa. Una difesa che può essere del tutto sincera, ma è in netta contraddizione con il lancio qualche anno dopo della POW! Entertainment, descritta da Riesman come «un'impresa fondamentalmente criminale». Forse la coppia è inciampata due volte sulla stessa pietra. Altrimenti i tanto amati occhiali colorati di Lee nascondevano qualcosa di cui il fan medio della Marvel non è stato in grado di accorgersi a prima vista. 

Riesman scava sempre più a fondo negli ultimi anni di Lee, fino a scoperchiare un vero e proprio vaso di pandora, a partire dal tormentato rapporto con sua figlia Julia Celia, meglio conosciuta come J.C., che nel corso degli anni ha dovuto vedersela con la corte di custodi e consiglieri del padre, ognuno più equivoco ed ambiguo dell'altro. Così, almeno, sono apparsi agli occhi della sua erede che li ha sempre visti come semplici avvoltoi in cerca della fortuna di un nonagenario troppo preoccupato di piacere a tutti. Uno di loro, l'imprenditore di memorabilia Keya Morgan, si è dichiarato non colpevole in un processo per abusi sugli anziani. Nel frattempo, J.C. ha finito per tenere da sola le chiavi del regno dopo una serie di lotte legali in cui è arrivata perfino ad agitare l'ombra delle molestie sessuali, accuse che alla fine si sono rivelate ampiamente infondate. Questi anni finali fatti di frodi e scenette da soap opera sembrano quasi la versione grottesca di un contrappasso per l'ombra del peccato che ha accompagnato Stan Lee durante gran parte della sua vita: l'appropriazione dispotica del lavoro di quegli artisti che, come Jack Kirby, hanno dovuto passare notti insonni a disegnare a cottimo affinché il loro capo finisse per prendersi tutta la gloria e i soldi. Anche dopo aver lasciato la Marvel, il padre fondatore continuò a credere che i suoi successori spirituali gli dovessero una parte generosa del loro successo. A differenza di quello che si dice spesso di Kirby, Lee è sempre stato molto più bravo a farsi pagare per i suoi fumetti che a crearli.

Così, dopo aver denunciato la Marvel perché a suo avviso non aveva rispettato un contratto che gli garantiva il 10% dei profitti generati da qualsiasi adattamento audiovisivo di un personaggio da lui co-creato, il nostro uomo ha raggiunto un accordo extragiudiziale assai conveniente. Tra le altre cose la Marvel Entertainment gli ha permesso di realizzare tutti quei famosi camei che tanto ossessionavano un certo settore dei fan. L'ultimo è avvenuto in Avengers: Endgame (2019), dove ha interpretato la parte di un hippie che era ironicamente un personaggio del tutto estraneo al profilo di orgoglioso capitalista che Stan "The Man" Lee all'epoca incarnava. 

La Marvel gli ha anche garantito per molto tempo la presenza, quasi come un simbolo e un regalo alla cultura pop, su qualsiasi tappeto rosso con il logo dei Marvel Studios, di solito in posa accanto a un’automobile con il cui marchio lo studio aveva raggiunto un accordo di product placement. Lee e questo brand hanno avuto, per tutto il XXI secolo, lo stesso peso specifico. Erano praticamente due estensioni della stessa realtà aziendale.

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L'eredità di Stan Lee va ben oltre il merito di avere avviato la gigantesca macchina aziendale che alla fine lo avrebbe trasformato in una mascotte e in una parodia di se stesso. In Comics Made Me Fat, un altro saggio di Tom Spurgeon pubblicato nei primi anni 2000, l'autore ha sottolineato come la narrativa legata al mito dei supereroi «abbia promosso una proiezione mitopoietica del tutto fantasiosa basata su modelli arbitrari, staccati dalla realtà e socialmente inarrivabili. Un bambino che idolatra il più grande giocatore di basket del mondo può almeno praticare lo sport in cui il suo eroe ha saputo farsi valere. Ma fino a quando lottare contro i ninja non diventerà una competenza da coltivare nei campus dei college più prestigiosi, la pratica di base per diventare un supereroe resta solo la devozione a questo tipo di storie. Ciò che veramente resta è la consapevolezza del valore del modello ideato da Stan Lee che è riuscito a trasformare se stesso da autore e lettore di fumetti in un eroe che alla fine può ottenere anche laute ricompense finanziarie o professionali. Nel frattempo ai lettori non resta che starsene nel loro seminterrato e chiamare Domino's nel caso sentissero il bisogno di compagnia».

Spurgeon ha espresso questo concetto all'inizio del secolo, prima dell'uscita di X-Men e molto, molto prima che i Marvel Studios diventassero sinonimo dell’efficienza imprenditoriale di Hollywood. Quei modelli di ruolo bizzarri e arbitrari a cui si riferiva parlando dei supereroi non sono più così irreali: oggi persino Wikipedia ha una voce dedicata al fenomeno sempre più complesso da seguire dei supereroi della vita reale (o RLSH), individui che combattono il crimine o aiutano la comunità mascherandosi con abiti ispirati ai supereroi dei fumetti, soprattutto dopo che i social media e lo streaming video hanno favorito il loro sviluppo come il lievito. Anche i fumetti hanno finito per riecheggiare questo fenomeno, permettendo una serie di doppi trasferimenti che raramente sono stati così fortunati come in Kick-Ass, creato da Mark Millar e John Romita Jr. per Icon (editore della Marvel Comics). 

L'era dei supereroi

A proposito di Kick-Ass, l'esempio del creatore di fumetti Mark Millar potrebbe servire anche a spiegare perché il panorama descritto da Comics Made Me Fat sia cambiato così tanto dall’epoca della sua pubblicazione: lo sceneggiatore ha affinato le sue capacità lavorando nella grande casa delle idee Marvel per diventare, con lo sviluppo di diversi progetti creativi personali e di sua stessa proprietà, una sorta di Stan Lee del nuovo millennio. Millar è capace sia di costruire progetti di franchise multimediali con una sola frase, "Harry Potter incontra James Bond", prima ancora che il numero 1 della miniserie arrivi nei negozi, sia di vendere il futuro del suo intero universo creativo o la sua immaginazione, al miglior offerente, che in questo caso si è rivelato essere Netflix. 

Così Mark Millar è l’esempio vivente di un fan che, dopo essere cresciuto con il Metodo Marvel, è stato in grado di entrare da eroe in un'industria piena di ricompense finanziarie e professionali. La grande differenza rispetto alla fortuna di Lee è che a lui sono bastati alcuni decimi di secondo per seguirne l'esempio e trasformarsi in una fabbrica di idee transmediali in grado di mettere insieme gli interessi di più marchi e forme di comunicazione.

Chi può fargliene una colpa? In un panorama culturale come il nostro, dominato dal mito dei supereroi tanto che al solo annuncio di un nuovo capitolo di Capitan America vengono pubblicati su ogni media centinaia di articoli sull'identità e la rappresentazione LGBT+, nessuno può più ritenere, come molti hanno fatto ai tempi dell'uscita di Hulk, che la storia d'amore tra Hollywood e i supereroi sia una moda passeggera. Non può più venire in mente a nessuno che sia una bolla condannata presto a scoppiare, appena il grande pubblico capirà che, come spiega Tegan O'Neil in The Hurting, i supereroi sono in realtà solo delle vuote e stupide creature. Ora sappiamo che la realtà è un’altra: i lettori di fumetti cinici e annoiati possono essere giunti a questa conclusione decenni fa, ma il grande pubblico ha visto persone con mantelli e super poteri entrare nelle loro vite esattamente quando ne avevano più bisogno. 

L’11 settembre e l'avvento dell'Era del Terrore hanno creato un legame stabile e duraturo quanto incline ad adattarsi a tutti i tipi di cambiamenti socio-culturali. Così si spiega, per esempio, perché film come Wonder Woman (Patty Jenkins, 2017) o Captain Marvel (Anna Boden e Ryan Fleck, 2019) abbiano per un po’ cavalcato l’ondata mediatica dell’orgoglio femminista.

Attualmente i supereroi, invece di essere un modello aspirazionale diretto a uomini con problemi di socializzazione e la tendenza a ritirarsi nella troika scantinato/misantropia/fast food, ispirano meme su ragazzine stufe dei negozi di giocattoli che offrono loro costumi da Principessa Disney invece delle maschere di Thor. Quest’ultimo nell’attuale clima commerciale potrebbe benissimo essere considerato una sorta di Principe Disney. I super eroi sono entrati a fare parte della nostra cultura, fanno lavorare milioni di persone in tutto il mondo, servono come quadro di analisi di una realtà in continuo cambiamento e sono diventati doppiamente aspirazionali, come dimostrano tutte le persone in calzamaglia che pattugliano il loro quartiere per la gioia di YouTube e, anche, quelli che sognano di diventare il prossimo Mark Millar. La cosa incredibile è che tutto sia nato nella New York degli anni ‘60, quando un giovane di nome Stan Lee ha inventato una formula per cui i super eroi potevano e dovevano avere gli stessi problemi vissuti da qualsiasi ragazzo, permettendogli di identificarsi in storie piene di astronavi, divinità nordiche e uomini lucertola. Questa idea ha rivoluzionato il corso dell'industria dell'intrattenimento, il modo in cui consumiamo la cultura pop e il volto stesso del capitalismo. Quell'idea ha cambiato il mondo.

* Una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata il 14 giugno 2017

Articolo originariamente pubblicato su GQ Spagna