Coronavirus, a Mosul uccide la violenza domestica: le irachene chiedono aiuto

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La cooperante di Un Ponte per: "Nove vittime su dieci sono donne, per cui ci sono anche uomini a chiedere sostegno" Share on facebook Share on twitter Share on whatsapp Share on email Share on print


ROMA – “In Iraq molti uomini e padri di famiglia svolgono lavori giornalieri, ad esempio nei cantieri. La sospensione delle attività, imposta per contenere l’epidemia di coronavirus, li ha lasciati senza reddito e questo aumenta la frustrazione e quindi le violenze contro mogli, figlie, madri o sorelle. Se le vittime ci chiamano per chiedere aiuto? Per le donne in questo momento è difficile avere tempo e spazio per se stesse, quando la casa è piccola e la famiglia numerosa”. Con l’agenzia Dire parla Lia Pastorelli, desk officer di Un Ponte per. Nella Piana di Ninive, a Mosul, la cooperante vive e lavora da cinque anni.

“UN PONTE PER” È A MOSUL CON IL PROGETTO “NISSA”

Dal 2017 segue Nissa – in arabo “donna” – il programma che la ong italiana ha lanciato per contrastare la violenza di genere. Già prima che la pandemia costringesse le persone a restare in casa, cultura e tradizioni rendevano la vita particolarmente difficile alle donne. A Mosul, ex capitale del gruppo Stato islamico in Iraq, restano i segni della guerra e, oltre le sue periferie, i campi profughi.

1/10 DELLE VITTIME È UOMO

Sosteniamo sei centri anti-violenza e ad oggi Nissa ha offerto supporto psico-sociale a 14mila persone, su una popolazione di un milione e seicentomila abitanti” spiega Pastorelli. “Nove vittime su dieci sono donne, per cui ci sono anche uomini” evidenzia l’operatrice.

Come nel resto del mondo però, la violenza di genere avviene soprattutto tra le mura domestiche, e ora, costretti a stare in casa, mariti, padri o fratelli violenti sono ancora più pericolosi. “Perdendo il reddito degli uomini, la famiglia soffre – continua Pastorelli – perché è raro che la donna lavori”.

CON IL LOCKDOWN E’ PIU’ DIFFICILE DENUNCIARE

In tempo di epidemia, Un Ponte per ha riadattato i propri interventi attivando un numero per le vittime di violenza. Le chiamate ricevute non sono però di più rispetto a prima e questo secondo l’esperta è un dato significativo. “La violenza in casa di certo aumenta – dice Pastorelli – ma il fatto di condividere spazi spesso piccoli con in media tra le cinque e le otto persone e tante faccende da sbrigare, non dà alle donne la privacy necessaria per una telefonata di denuncia”.

COME SI PUÒ ASPETTARE LA FINE DEL LOCKDOWN?

Una volta finito il lockdown, l’operatrice è certa che “le denunce aumenteranno e tante donne avranno davanti a sé un recupero lento e laborioso”. Così si fa ancora più urgente l’apertura di una struttura che a Mosul possa accogliere coloro che, per le violenze psicologiche, fisiche o sessuali subite, necessitano dell’allontanamento da casa.

Calcoliamo che siano almeno il 5% delle donne che seguiamo ed è una richiesta presentata alle autorità da tempo” avverte la responsabile di Un Ponte per. “Capite che ora sarebbe assolutamente essenziale”.

L’ALFABETIZZAZIONE PER RENDERLE LIBERE

Una certa mentalità radicata, però, non aiuta. “Le vittime non possono neanche denunciare alla polizia” dice Pastorelli. “La donna qui è ancora vista come la causa delle violenze che subisce. Il delitto d’onore è legittimato. Spesso poi, insieme agli uomini, sono le suocere a vessare le nuore”. Il progetto Nissa, oltre a raccogliere le denunce, indirizza le vittime verso centri che offrono servizi specifici non solo di tipo medico-sanitario o psicologico ma anche corsi di alfabetizzazione o professionali. Secondo Pastorelli, “rendere le donne indipendenti economicamente è fondamentale per innescare il cambiamento”.

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