Addio Karapiru, l’indigeno incontattato del Brasile massacrato sia in vita che da morto da taglialegna e coloni

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Era uno degli ultimi membri del popolo Awà, una delle ultime tribù incontattate del Brasile e minacciate dalla politica di Bolsonaro. Ma ora Karapiru. dopo una difficile vita in fuga, è morto di Covid.


Nella sua lingua, il suo nome significava “falco”. L’uomo viveva insieme al suo popolo, gli Awá, nel Brasile nord orientale, prima di fuggire nel folto della foresta pluviale cercando di lasciarsi alle spalle tutto quello che aveva. Per 10 anni ha vagato da solo, dopo che la sua famiglia è stata sterminata. E ora purtroppo se n’è andato a causa del coronavirus, portato dagli interessi economici che hanno invaso la sua casa, che per centinaia di anni aveva curato con la sua tribù.

La terra ancestrale di Karapiru si trova nello stato del Maranhão, tra le foreste equatoriali dell’Amazzonia occidentale e le savane orientali. Gli Awá, la chiamano Harakwá, “il luogo che conosciamo”. Come spiega Surviror International, oggi, i membri del popolo Awá sono circa 520. Vivono cacciando pecari, tapiri e scimmie. Si spostano nella foresta pluviale e ne raccolgono i prodotti.

Per secoli hanno vissuto in serena simbiosi con la foresta pluviale. Ma negli ultimi decenni hanno assistito alla distruzione di gran parte della terra natale e all’assassinio del loro popolo per mano dei karaí (i “non-Indiani”). Oggi, sono non solo una delle ultime tribù di cacciatori-raccoglitori rimaste in Brasile, ma anche una delle più minacciate al mondo,.

La storia di Karapiru

A ricostruire la storia di quest’uomo speciale è stata Survivor. Verso la fine degli anni ‘60 casualmente alcuni geologi americani in ricognizione aerea sulla regione scoprirono alcune rocce grigio-nere sul terreno. Poco dopo si capì che si trattava del più grande giacimento di ferro del pianeta.

La scoperta innescò lo sviluppo del Gran Carajás, un progetto agro-industriale finanziato da USA, Giappone, Banca Mondiale e l’allora CEE. Furono costruite una diga, fonderie d’alluminio, una linea ferroviaria lunga 900 km e strade asfaltate che distrussero immense fasce di foresta pluviale primaria. Nacquero i primi allevamenti di bestiame e nel suolo della foresta fu scavata una voragine così vasta da poter essere vista dallo spazio: nel corso del tempo sarebbe diventata la miniera a cielo aperto più grande del mondo. La miniera Carajás e la ferrovia hanno segnato l’inizio della migrazione nei territori degli Awá, in Brasile.

Per l’erogazione di un prestito da un miliardo di dollari, i finanziatori chiesero al governo brasiliano di garantire la mappatura e la protezione dei territori indigeni. Ma ciò non bastò e il Progetto Gran Carajás ebbe un impatto devastante sull’ambiente della regione e sui suoi popoli tribali.

Nell’area si riversarono allevatori, coloni e taglialegna, accompagnati da ruspe che squarciavano il suolo per raggiungere minerali, bauxite e manganese. I fiumi furono contaminati, gli antichi alberi abbattuti e bruciati. 

La tribù degli Awá era considerata un vero e proprio ostacolo al progetto. Uno dopo l’altro, i membri vennero uccisi, avvelenati o talvolta fucilati, come accadde alla famiglia di Karapiru. Quest’ultimo, scampato al massacro che aveva coinvolto la moglie, i figli, la madre e i fratelli, fuggì nella foresta con un proiettile conficcato nella schiena.

Non c’era modo di curare la ferita. Non riuscivo a mettere nessuna medicina sul dorso e soffrivo molto, – ha raccontato a Fiona Watson di Survival. – Il piombo bruciava nella mia schiena, e sanguinavo. Non so come abbia fatto a non riempirsi d’insetti. Ma sono riuscito a sfuggire ai Bianchi.

Per 10 anni, Karapiru visse in fuga percorrendo circa 650 km nello stato di Maranhão, spaventato e solo. Dopo un lungo vagare, venne avvistato e accolto da un contadino alla periferia di una cittadina, ai confini dello stato di Bahia. L’uomo seguì il contadino nel suo villaggio, dove fu accolto in cambio di piccoli lavori. Poco dopo, grazie ai funzionari del FUNAI (il dipartimento governativo agli affari indiani) ritrovo l’unico figlio ancora in vita, Xiramukû, ritenuto morto.

Xiramukû, che era sopravvissuto alle ferite dell’attacco, invitò il padre ad andare a vivere con lui in un villaggio awá. Dopo anni di isolamento, Karapiru poteva tornare a vivere come un Awá: mangiare pecari cacciati nella foresta pluviale, dormire in un’amaca e tenere scimmie come animali da compagnia. Karapiru quindi si risposò. Ha avuto altri due bambini e ha vissuto vicino a suo figlio nel villaggio awá di Tiracambu. 

Ma ora è stato il Covid a ucciderlo, denuncia Survivor:

Con grande dolore vi comunichiamo la morte di Karapiru Awá, ennesima vittima della “politica” genocida di Bolsonaro sul Covid. La sua è stata una vita incredibile, segnata da enormi sofferenze, come il massacro della sua famiglia da parte di taglialegna e coloni. Nonostante tutto il male che la nostra società gli aveva inflitto, Karapiru era rimasto un uomo dolce e gentile.

RIP Karapiru, che la terra ti sia lieve.

Fonti di riferimento: Survival International Italia

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